LA POLITICA è DIVENTATA TIFO: C'è QUALCOSA CHE NON VA

Se fosse un film, sarebbe arrivato il momento in cui i protagonisti si guardano e si chiedono: «Come siamo arrivati a questo punto?». Da lì, lo sceneggiatore desideroso di un finale di buon senso, farebbe cominciare (o almeno lascerebbe intuire) una presa di coscienza degli errori commessi. Sfortunamente, però, siamo nella “vita reale”, come la definiscono i ragazzi di oggi quando vogliono identificare quello strano ambiente in cui si ritrovano quando escono dai social. E nella vita reale la politica italiana non lascia intravedere, al momento, svolte di buon senso. Il fatto è che, mentre l’estrema destra extraparlamentare continua ad arruolare giovanissime leve nelle curve degli stadi, la politica sembra sempre più interpretata da ultras, che siano dirigenti di partito, militanti o semplici elettori. Insomma, il tifo è diventato politica, la politica è diventata tifo. Ed è chiaro che qualcosa non va.

Le ultime polemiche riguardano il ruolo della Rai nel garantire il pluralismo e sono scaturite dal monologo sul 25 aprile, cancellato all’ultimo momento, di Antonio Scurati, in cui lo scrittore – oltre a commemorare i martiri del fascismo e del nazifascismo – accusava l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni di lasciare «infestare la casa della democrazia italiana» dallo «spettro del fascismo» per il fatto di non essersi mai detta apertamente «antifascista». Di questo abbiamo già scritto. Possiamo forse soltanto aggiungere che (scartata la motivazione di una cancellazione dovuta ai costi eccessivi, alla quale non sembra credere davvero nessuno), se Scurati doveva diventare un caso, poteva diventarlo dopo la messa in onda del monologo e non prima: chi avesse voluto accusarlo di aver tirato dentro pretestuosamente la premier e la sua parte politica, lo avrebbe potuto fare senza che nessuno potesse parlare di censura.

Questo perché chi esercita il potere dovrebbe dimostrare un senso di responsabilità e una lungimiranza maggiori di chiunque altro.

Detto questo, a frugare nei già polverosi archivi delle cosiddette Seconda e Terza Repubblica (sembrano impolverarsi con una velocità maggiore di quelli del Risorgimento, qualcosa vorrà dire) troveremmo innumerevoli casi di politica intesa come tifo. Per esempio, in casi speculari, dimissioni chieste all’avversario e ritenute invece non dovute per un compagno di partito. Garantisti che diventano giustizialisti e viceversa. La stessa legge bocciata se presentata dall’opposizione di turno, approvata se presentata dalla maggioranza di turno. Se un avversario entra nel proprio partito, si ringrazia e lo si presenta come un esempio cristallino di politico che di là era stato emarginato e adesso riuscirà senz’altro a esprimere tutto il suo incredibile potenziale; a parti inverse, è un voltagabbana che si è prestato a un’indegna campagna acquisti.

Viene da pensare che, se la politica fosse stata quella di oggi, l’Assemblea Costituente non sarebbe mai riuscita a scrivere la Costituzione. Non in meno di due anni, come effettivamente avvenne, ma mai. Non che nella Prima Repubblica fossero tutte rose, intendiamoci. Gli insulti e i veleni circolavano anche allora. Però i partiti avevano anche un ruolo “regolatore” e i loro elettori ne seguivano le indicazioni, soprattutto sulle questioni davvero rilevanti. Oggi, troppo spesso, sono i leader a sondare che cosa vogliono/pensano i potenziali elettori e a dichiarare di conseguenza. Chi è più bravo a farlo vince, altrimenti non si spiegherebbe la volatilità estrema del voto, che premia ora questo, ora quel partito, spostandosi con una rapidità sorprendente da un’elezione all’altra. La politica-tifo, infatti, manca dell’elemento fedeltà che caratterizza il tifo calcistico.

È vero, nella Prima Repubblica c’erano anche le tangenti e gli intrallazzi, ma pare che ci siano anche adesso: sono un grande classico, non passano mai di moda. È necessario, dunque, immaginare una politica diversa. La completa legittimazione dell’avversario e la disponibilità al dialogo sui temi cruciali per la vita del Paese (riforme istituzionali, politica europea ed estera, sanità e welfare, per dirne alcuni) potrebbero aiutare a ricostruire l’indispensabile spazio pubblico. Sarebbe almeno il caso di provarci, anche a costo di sentirci di nuovo in un film. Di fantascienza.

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